Stigliano 2023



La riscoperta e la rivalutazione delle antiche maschere è molto importante per la storia del folclore lucano e anche italiano.

Far rivivere carnevali e feste tradizionali consente di riappropriarsi di una parte della cultura tradizionale quasi del tutto abbandonata alla fine del secolo scorso.

Gli studi compiuti da Mimmo Cecere sui pastori e i contadini nelle campagne del materano hanno riportato alla luce storie dei passati carnevali e delle maschere tradizionali che venivano indossate già dai primi anni del '900. Questi racconti trovano riscontro nelle testimonianze raccolte da Rocco Derosa tra gli anni '30 e la fine degli anni '70 e confermano l'autenticità delle antiche maschere di Stigliano e la loro presenza spontanea e costante nel passato. Vivificare questa tradizione, sopravvissuta soltanto nei ricordi di alcuni anziani, contribuisce a ravvivarne la memoria quasi cancellata dallo spopolamento e dall'abbandono del territorio con la conseguente perdita della cultura tradizionale.

Il gruppo carnevalesco si componeva di due tipi di maschere: lo Zoemmara e la Speicha, che andavano di notte, di masseria in masseria, suonando il cupa-cupa (un tamburo a frizione tipico del Meridione), agitando campanacci, omaggiando le famiglie con canti beneaugurali e serenate personalizzate in cambio di offerte di cibo.

Lo Zoemmara, lo Zimmaro, dal greco khímaros, il maschio della capra, ha volto e testa coperti da pelle e corna di caprone e, sopra gli abiti usuali, indossa i nant'cauze, una sorta di grembiule per la mungitura  in pelle di capra. Il petto è coperto da un prizzone, un gilet in pecora, adornato con cinte di cuoio con dei sonagli applicati. Si muove oscillando il busto o saltando, facendo risuonare i campanacci o suonando il cupa-cupa. Si identifica con una maschera maschile, una creatura mitologica metà umana e metà capra, un pan, un fauno, creatura della mitologia greca e romana. Fauno era il dio pastore, protettore del bestiame ovino e caprino, dei pascoli e della campagna. Si ritiene che fosse adorato dai contadini e che i fauni fossero gli antichi pastori dei primordi del mondo.

In onore del dio Fauno venivano celebrati i Lupercali, festività romana che cadeva a febbraio, mese di purificazione, per promuovere salute e fertilità. Durante la festa, i Luperci, giovani uomini di età compresa tra i 20 e i 40 anni, sacrificavano dei capri, mentre si offrivano focacce fatte con il grano delle spighe della passata mietitura. Vestiti di pelli di animali i Luperci diventavano uomini-capri, incorporandone le virtù, portando fertilità, correndo, giocando e ridendo; molte donne si mescolavano fra loro di proposito presentando le mani perchè le percuotessero, si credeva infatti che così le gravide sarebbero state facilitate nel parto e le sterili nel concepimento.

L'altra maschera, apparentemente unica nel panorama italiano in quanto legata all'antica coltura del grano, è quella della Speicha, la spiga. Indossa come copricapo un fascio di steli di grano falciato con le spighe rivolte verso la base, legate con un nastro, oppure, in testa, indossa una fiscella, un canestro di giunco usato per scolare la ricotta, rovesciato al contrario, con delle spighe intrecciate sopra. Il volto della Speicha è coperto da un tessuto scuro, indossa uno scialle nero di spugna, tipico delle vedove e un fazzolettone colorato o con motivi floreali. Agita con le mani un grosso campanaccio per scacciare gli spiriti dell'inverno o suona il cupa-cupa per accompagnare i canti. E' una maschera femminile, una divinità arborea legata alla coltivazione del grano, probabilmente associata al culto greco di Demetra, dea della natura, dei raccolti e delle messi, del grano e dell'agricoltura, responsabile del ciclo delle stagioni, della rinascita, dei raccolti e della morte provocata dalla mietitura.

Le due maschere esprimono l’importanza del legame che le antiche popolazioni avevano nei confronti della natura da cui dipendeva la sopravvivenza attraverso l'agricoltura e l'allevamento e rappresentavano un simbolo di buon auspicio e fertilità.

Celebrando l'antico carnevale è stata fatta rivivere la tradizione locale di dare alle fiamme un pupazzo, si è compiuto il rito di bruciare un personaggio di paglia, alto 3 metri e di forma antropomorfa, munito di corna di caprone e un mazzo di pungitopo legato in cima alla testa. Bruciare solennemente un fantoccio significava distruggere definitivamente la stagione invernale, segnando l'arrivo della primavera con la rinascita della natura e della vita stessa. Oggi, sacrificando simbolicamente paglia e corna, ci auguriamo di far rivivere le maschere tradizionali e di   riallacciare quel legame di profonda conoscenza e di antico rispetto per il loro luogo natio, e ne auspichiamo la sopravvivenza nella forma più simile all'originale con la speranza che tornino a manifestarsi in maniera spontanea.


Fotografie di: Cristina Carbonara


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